Dalla società autocentrica a…

È nata prima l’auto o la città? Parafrasando il celebre interrogativo che da sempre coinvolge in appassionati dibattiti, potremmo interrogarci sullo stretto rapporto che anima le nostre città e le nostre automobili.
Ciò che è indubbio, è il ruolo che le automobili hanno avuto nel corso del XX secolo: protagoniste del secolo scorso e status symbol di una società in continua evoluzione, da oggetto di lusso sono diventate fenomeno di massa, segnando la storia e modificando le abitudini di quasi tutti gli occidentali.

Le automobili nella società occidentale

Per ripercorrere l’evoluzione delle nostre automobili e capire quanto la loro esistenza sia legata a doppio filo con quella della nostra società, potremmo utilizzare le parole di Karl Baedeker, citate da Stefano Maggi nel libro “Mobilità sostenibile – Muoversi nel XXI secolo” ( Società editrice il Mulino, 2020): “Un italiano non passeggia mai se può guidare; per lui è un mistero inspiegabile come il passeggio possa essere piacevole. Un appunto mi è stato mosso frequentemente: Lei è signore e va a piedi?

Questa frase risale al 1869 e racconta una grande verità: l’automobile non può essere considerata solo ed esclusivamente un oggetto, mero mezzo di locomozione, agglomerato di parti meccaniche o elettriche. L’automobile è stata (ed è), prima di tutto, un simbolo.

L’automobile è infatti diventata negli anni simbolo di libertà on the road e di autonomia, nonché volano dell’economia e segno tangibile di un benessere diffuso e di un boom economico che ridava speranza ad intere generazioni, specialmente dopo gli anni bui delle Guerre Mondiali.
Dopotutto, l’auto ha reso possibile a quasi tutti gli occidentali di vivere sensazioni di indipendenza e di libertà, trasformandole in domestiche comodità e permettendo di fruire in maniera completa ed immersiva gli spazi delle città.

D’altronde, così come non riusciremmo a pensare alle città senza le sue automobili, allo stesso modo non sarebbe facile immaginare un Paese senza le sue città. Che sia Roma, New York, Parigi o Rio de Janeiro, le città sono diventate protagoniste dell’immaginario collettivo moderno, tanto da risultare difficile il solo pensare che in passato le città potessero essere appendici della campagna, e non viceversa.

Ad oggi, solo in Europa, quasi il 75% delle persone vive in agglomerati urbani. Tutto ciò ha modificato in maniera profonda la concezione della città ed il rapporto con la campagna, tra centro e periferia. Ma è sempre stato così? La risposta è semplice: no.

Come sono cambiate le città

Durante il Medioevo e nel corso dell’Età Moderna, la grande maggioranza della popolazione viveva all’esterno delle città, in borghi, villaggi e campagne. La cosiddetta “Età Contemporanea” ha portato con sé uno stravolgimento dell’assetto e dei confini tra esterno ed interno, tra città e campagna.
L’evoluzione delle città e la storia dell’Urbanizzazione si vede bene in questa animazione, creata da Max Galka di Metrocosm partendo dai dati di uno studio dell’Università di Yale.

The History of Urbanization, 3700 BC – 2000 AD

Nuovi modelli urbanistici

Nel pieno del primo lockdown, Farhad Manjoo, opinionista del New York Times, nell’articolo intitolato “Ho visto un futuro senza auto ed è magnifico“, in collaborazione tra lo stesso New York Times e lo studio di architettura PAU (acronimo di Practice for Architecture and Urbanism), ha provato a disegnare nuovi scenari per la City. Città diverse, con meno spazio riservato alle auto, ipotizzando il divieto di accesso all’isola a tutti i veicoli privati, a favore di spazi che potrebbero essere usati per le “autostrade delle biciclette” e per una serie di linee di “bus a transito rapido”.

Ma Manhattan non è l’unico centro urbano ad aver subito la fascinazione di una “città senza auto” e probabilmente il COVID 19 ha in un certo senso rivoluzionato il modo di immaginare le città in questo senso. Sono ancora nei nostri occhi le immagini dei centri città svuotati dalle persone e ripopolati da animali selvatici: cigni che nuotano nel Canale di Venezia o nei Navigli, delfini che si avvicinano ai porti, lepri che si muovono indisturbate in città.
Piuttosto che tornare al caro vecchio smog, tante città hanno provato a cambiare passo, perché città più sostenibili saranno centrali nella costruzione di un futuro più verde e sano. Questo concetto è stato espresso chiaramente già un anno fa nell’UN-Habitat’s Report: “Cities and Pandemics: Towards a more just, green and healthy future”. In particolare, una delle priorità-chiave che emergono dal Rapporto è quella di ripensare la forma e la funzione della città: è necessaria una maggiore attenzione nella pianificazione dei quartieri e ripensare la mobilità, garantendo insediamenti multifunzionali ed inclusivi.

Di sicuro, dal Rapporto dell’UN emerge un’ulteriore ed importante riflessione: città più sostenibili ed organizzate hanno reagito in maniera migliore alla crisi pandemica, accelerando peraltro dei processi di trasformazione già in corso. È davvero, dunque, la fine della società (e delle città) autocentriche?

Nella città del futuro, il centro sembra essere un altro. O, meglio, tanti altri. Infatti, prende sempre più piede l’idea della città policentrica come modello urbanistico del futuro.
Città multifunzionali e servizi di prossimità: queste le parole chiave attorno a cui ruota l’idea di città policentrica, o città-arcipelago, come l’ha definita Stefano Boeri, l’ideatore del Bosco Verticale a Milano. Questa idea è una realtà ormai in molti Paesi: a Parigi, per esempio, il progetto di Carlos Moreno, professore della Sorbona, ha preso vita nella definizione della “Città dei 15 minuti”. Riorganizzare gli spazi urbani in modo che il cittadino possa trovare entro 15 minuti da casa tutto quello che gli serve per vivere: lavoro, negozi, strutture sanitarie, scuole, impianti sportivi, spazi culturali, bar e ristoranti, luoghi di aggregazione. In questo modo, le periferie tornerebbero ad animarsi e il cittadino potrebbe riappropriarsi degli spazi di quartiere, superando il contrasto tra centro e periferia e valorizzando il territorio nella sua interezza.

Sulla stessa linea, anche Barcellona: l’urbanista Salvador Rueda ha provato a disegnare il futuro della mobilità della città con il progetto dei “superblocks” (o ”superilles”, in catalano). L’idea prevede la divisione della capitale della Catalogna in blocchi in cui le auto potranno circolare soltanto lungo il perimetro, permettendo ai soli residenti di percorrere l’isolato con i propri mezzi. Il progetto mira a ridurre l’inquinamento acustico ed ambientale, a migliorare la mobilità e ad aumentare gli spazi verdi, sebbene abbia ricevuto anche delle critiche, incentrate sullo spostamento del traffico e dell’inquinamento dal centro verso le zone perimetrali.

Per concludere...

Quale che sia il modello che adotteranno le grandi capitali europee, il futuro delle città sembra essere proprio questo: una città che punta a valorizzare ogni quartiere e a recuperare una relazione più serena con tutte le sue parti, che mira ad accorciare il gap tra la maggiore efficienza del centro e i disservizi delle periferie e, di conseguenza, a ridurre le diseguaglianze.
Una nuova città ed una nuova società, in cui le automobili non spariscono, ma diventano parte integrante di un progetto urbanistico più ampio, in grado di ripensare un modello e rimettere al centro la persona, le sue esigenze ed i suoi spazi. Una città sostenibile, insomma.

Autore /

Curiosa, determinata, entusiasta, lucana. Grande attitudine al cambiamento ed all'innovazione. Credo fermamente nella gentilezza.

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